Piano di mobilità aziendale in 10 domande

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Le 10 domande che un’azienda dovrebbe farsi prima di redigere un piano di mobilità, perché il PSCL non è un documento, ma un percorso

Redigere un Piano degli Spostamenti Casa-Lavoro (PSCL) non significa solo rispettare la normativa. Per chi fa davvero mobility management, la stesura di questo documento è un momento chiave per interrogarsi su dati, abitudini, criticità e opportunità reali all’interno dell’impresa. Prima ancora di creare il piano di mobilità aziendale, ci sono 10 domande strategiche che ogni mobility manager dovrebbe porre a sé stesso e al proprio team. Ecco quali sono, e perché fanno la differenza.

Il PSCL non inizia con un file Excel, ma con alcune domande. Un buon mobility manager sa che il piano non è mai solo “il documento”, ma il processo che lo genera. Porsi le domande giuste, prima ancora di iniziare a scrivere, è il miglior investimento che un’azienda possa fare per trasformare gli spostamenti quotidiani in opportunità di crescita, innovazione e valore condiviso.

Conosci davvero come si spostano i dipendenti?

La raccolta dati attraverso questionari è spesso il primo passo, ma non basta contare le auto per sapere come le persone vivono il tragitto casa-lavoro. Un conto è sapere che il 70% usa l’auto privata, un altro è capire se lo fa per necessità o per abitudine. Ad esempio, molti pendolari usano l’auto anche in presenza di collegamenti pubblici efficienti, semplicemente perché non conoscono alternative o perché percepiscono il TPL come inaffidabile. Avere dati grezzi è utile, ma ciò che conta davvero è interpretarli con uno sguardo critico, incrociandoli con orari di ingresso, distanze, presenza di figli a carico, tempo di percorrenza e accessibilità. Lavorare sulla qualità della lettura del dato fa la differenza tra un PSCL generico e uno capace di proporre soluzioni centrali per il benessere aziendale.

Quanti dipendenti arrivano in sede ogni giorno? E con quale frequenza?

In molte aziende, in seguito alla pandemia, la presenza in sede non è più costante e uniforme: c’è chi lavora in smart working tre giorni a settimana, chi alterna sedi diverse, chi è legato a turni. Se si redige un PSCL basato solo sul numero totale dei dipendenti, il rischio è di sovrastimare le emissioni o di proporre soluzioni che non rispondono al bisogno attuale. Il mobility manager dovrebbe focalizzarsi sulla popolazione realmente mobile, definendo cluster precisi: chi si muove quotidianamente, chi solo in alcuni giorni, chi è legato alla logistica o alla produzione, chi invece può optare per modalità ibride. Questi dati servono non solo per la fotografia iniziale, ma anche per calibrare azioni mirate, come navette o convenzioni flessibili. In sostanza: il PSCL non è per tutti, ma per chi davvero si muove.

La sede è facilmente accessibile?

Spesso ci si limita a verificare se “passa un autobus”, senza considerare l’effettiva accessibilità intermodale della sede. È vicino a una stazione ferroviaria? Il percorso pedonale è sicuro? Ci sono piste ciclabili in prossimità? Un mobility manager dovrebbe ragionare come un dipendente appena assunto: quanto è agevole raggiungere l’azienda senza auto privata? Un’azienda situata in un’area industriale, ad esempio, potrebbe essere formalmente servita da una linea di bus suburbano, ma se le corse sono rare o gli orari non compatibili con i turni, quella linea è inutile. In alcuni casi, è più efficace investire in navette aziendali o costruire percorsi facilitati da parcheggi di scambio. Il tema dell’accessibilità va affrontato con una mappa davanti, ma anche con un occhio all’esperienza utente.

Qual è la condizione dei parcheggi aziendali?

Il parcheggio è un termometro culturale. Se ogni dipendente ha il suo posto assegnato, l’azienda comunica in modo implicito che l’auto è la scelta preferita. Al contrario, se i parcheggi aziendali sono contingentati, condivisi o se ne premia l’uso alternativo (ad esempio per chi fa carpooling), il messaggio cambia. Prima ancora di pensare a nuove soluzioni di mobilità, il mobility manager dovrebbe analizzare come si gestisce lo spazio aziendale: quanti posti ci sono, quanti ne servono davvero, se ci sono aree dedicate a bici o monopattini? Si può ripensare la viabilità interna? A volte, limitare l’uso dell’auto in sede è il primo passo per attivare un cambiamento concreto nelle abitudini. In più, una gestione intelligente dei parcheggi può diventare uno strumento di engagement interno.

Qual è l’impatto ambientale reale degli spostamenti aziendali?

Parlare di sostenibilità è una cosa. Quantificarla, un’altra. Il PSCL deve diventare uno strumento utile anche per misurare la carbon footprint degli spostamenti casa-lavoro, che rientra nelle emissioni Scope 3 (indirette, ma strategiche). Quanti km percorrono in media i dipendenti ogni giorno? Con quali mezzi? Qual è il consumo stimato di carburante? Tutti questi dati possono essere tradotti in emissioni di CO₂ e inseriti nei report ESG aziendali. Se si lavora su base annua, anche una piccola riduzione dell’uso dell’auto può generare numeri significativi. Alcune aziende, come nel caso di Amazon Logistica o BMW Italia, usano il PSCL anche come leva di rendicontazione ambientale. Questo consente di integrare la mobilità aziendale nella strategia green complessiva.

Hai mai considerato incentivi alla mobilità alternativa?

Parlare di incentivi per la mobilità significa entrare nel vivo della strategia. Ma non tutti gli incentivi sono efficaci allo stesso modo. Un rimborso abbonamento TPL può essere utile, ma se l’orario del bus non coincide con quello di ingresso in azienda, l’effetto è nullo. Allo stesso modo, regalare una bici pieghevole a chi abita a 30 km dalla sede è un’idea nobile, ma poco realistica. Il mobility manager dovrebbe analizzare tipologia di utenti e reale accessibilità ai mezzi alternativi, per calibrare incentivi realmente motivanti: buoni carburante per il car pooling, voucher flessibili, premi in busta paga, benefit welfare. Le aziende più evolute creano veri e propri “pacchetti di mobilità” personalizzati, sfruttando le opportunità offerte dal MaaS (Mobility as a Service). Il vero incentivo, però, è far percepire ai dipendenti un vantaggio concreto, non solo economico ma anche in termini di tempo, stress, qualità della vita.

I dipendenti conoscono le alternative di mobilità già disponibili?

Talvolta esistono già valide soluzioni sul territorio: linee ferroviarie locali, bus navetta comunali, piste ciclabili ben collegate. Ma spesso i dipendenti non le conoscono, oppure non sanno come usarle. Il problema non è l’assenza di alternative, ma la mancanza di comunicazione efficace. Per questo, una delle azioni più utili che può intraprendere un mobility manager è creare una “mappa parlante” della mobilità aziendale: visiva, chiara, facilmente fruibile, con indicazioni pratiche su orari, costi, parcheggi di scambio. Anche i canali interni fanno la differenza: newsletter, bacheche digitali, incontri informativi, micro-video. Non basta offrire un servizio: bisogna saperlo raccontare e renderlo accessibile, come fosse un prodotto da promuovere all’interno dell’azienda.

Esiste un dialogo tra Mobility Manager e HR?

Un PSCL ben fatto non è mai opera di una sola persona. Il mobility manager è il punto di raccordo tra esigenze diverse: quelle dei lavoratori, quelle della direzione aziendale, quelle di chi gestisce strutture, logistica, orari. Per questo, prima ancora di scrivere il piano, è fondamentale costruire alleanze interne. Il dialogo con l’HR permette di inserire la mobilità tra i benefit aziendali; il confronto con il Facility Manager aiuta a capire le criticità logistiche; il supporto della Direzione serve per dare priorità e risorse alle azioni proposte. Senza un lavoro di squadra, il rischio è che il PSCL resti un documento fine a sé stesso, non integrato nei processi aziendali. Il mobility manager non deve essere “quello che fa il piano una volta l’anno”, ma una figura trasversale con potere di ascolto e proposta.

Siamo disposti a sperimentare, anche in piccolo?

La mobilità è un ecosistema in continua evoluzione, e non esistono soluzioni valide per sempre. Un approccio troppo rigido può bloccare l’innovazione, mentre un piccolo progetto pilota può diventare il seme di un cambiamento più ampio. Alcune aziende hanno cominciato con una settimana di “bike to work incentivato, altre con la sperimentazione di una navetta condivisa solo il venerdì, altre ancora con una scontistica per i dipendenti nei parcheggi d’interscambio. Queste azioni, se ben monitorate, generano dati preziosi e creano engagement interno. Il PSCL dovrebbe prevedere uno spazio dedicato alla sperimentazione, con margini di manovra per testare, misurare e – se serve – ricalibrare. In fondo, la mobilità è fatta di abitudini, e per cambiarle serve tempo… e un po’ di coraggio.

Siete pronti a cambiare punto di vista?

Questa è forse la domanda più scomoda, ma anche la più importante. Se consideriamo il PSCL solo come un obbligo normativo, lo tratteremo come un documento da chiudere, firmare e archiviare. Ma se iniziamo a vederlo come uno strumento strategico di trasformazione aziendale, tutto cambia. La mobilità racconta la cultura di un’impresa: quanto è attenta al benessere delle persone, quanto investe nella sostenibilità, quanto è capace di ascoltare e innovare. Un piano ben fatto può ridurre l’assenteismo, migliorare la puntualità, rafforzare l’immagine aziendale. Non è un dettaglio, ma una leva trasversale che tocca ambiente, logistica, welfare e comunicazione interna. Per questo serve una mentalità nuova: non quella del “compilatore di moduli”, ma quella del mobility strategist.

Photo credit: Aayush Srivastava

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