Come si affrontano i processi di insediamento all’estero? Quale competenze bisogna avere per sviluppare relazioni commerciali con altri paesi? E quali sono gli elementi da considerare per avere successo con le altre culture?
Lo abbiamo chiesto a Daniele Trimarchi, manager esperto, consulente dei processi di internazionalizzazione e nuovo membro della Community di Travel for business. Classe 1970, ha maturato diverse esperienze con aziende di tutte le dimensioni, dalle grandi multinazionali alle piccole e medie imprese italiane.
Prima di stabilirsi definitivamente a Salerno a fine 2014 ha trascorso all’estero diversi anni tornando in Italia solo qualche giorno al mese per lo sviluppo di alcuni progetti che prevedevano l’apertura di sedi produttive e di servizi. Ecco la storia di Daniele!
Daniele, puoi raccontarci come nasce la tua esperienza di supporto nei progetti di internazionalizzazione?
È un’attività che ho avviato grazie all’imput dell’Erasmus e che ho continuato a seguire con dei progetti fin dal 1996 poiché mi ha dato l’opportunità di ampliare la conoscenza in molti Paesi come la Francia e l’Irlanda, ma anche la Spagna e l’Olanda. Successivamente ho collaborato allo sviluppo di una ricerca per i Paesi Esteri contribuendo alla realizzazione di uno dei primi corsi di MBA International di 18 mesi full time. Un progetto che aveva come obiettivo lo sviluppo e l’amministrazione di business nei mercati internazionali e quindi anche di valutare lo sviluppo di mercati con l’aggregazione di diverse culture (in particolare ve ne erano diciassette durante il percorso formativo e nei diversi continenti).
La mia prima e vera esperienza di lavoro all’estero è avvenuta però a Dublino, dove per due anni ho compreso l’importanza della dinamicità del business e la necessità di saper interagire bene con le culture diverse che si incontrano quando si viaggia per lavoro. E da questo lungo viaggio ho inteso quanto sia fondamentale per un manager, un imprenditore, questa capacità per penetrare in modo efficace in un nuovo mercato. Certo, le competenze tecniche sono importanti, ma lo sono ancor di più le capacità di gestire relazioni (soprattutto quelle commerciali) considerando la comunicazione interculturale.
Quando hai messo a frutto queste tue prime esperienze?
Un’esperienza significativa che ha dato avvio ad uno dei primi progetti di internazionalizzazione è stata in Galles con una startup. Si trattava di aprire la prima sede produttiva di un gruppo italiano e ne ho curato tutti gli aspetti necessari: dalla ricerca del capannone industriale, contrattualistica, alla gestione dello sviluppo delle linee produttive fino alla ricerca e selezione di 35 operativi , per seguirne gli aspetti di produzione e qualità amministrazione e finanza. Un progetto che ho curato in piena autonomia e che ha permesso di sviluppare la realtà che seguivo nella fornitura di prodotti selezionati per grandi multinazionali.
Successivamente, nel 2011 è iniziata una nuova collaborazione. Tutto nasce quasi per gioco: dopo un’esperienza fatta in Toscana mi sono mosso alla volta della Turchia nel “settore del bianco” (frigoriferi, lavatrici ecc..) che insieme all’automotive è un settore primario che guida un paese nello sviluppo. Basti pensare che in Turchia la produzione di lavatrici supera i 10 milioni di pezzi ed io mi occupavo di fornire in loco la componentistica per un paio di milioni. D’altronde il know how italiano sugli elettrodomestici è immenso e l’obiettivo era riuscire ad ottenere economie di scala nella distribuzione capaci di raggiungere velocemente obiettivi di crescita e posizionamento nei nuovi mercati.
Per avere successo nei mercati esteri, oltre al know how che cosa ritieni sia importante possedere o conoscere?
Riassumerei key factor per interfacciarsi al mercato internazionale in due aspetti principali:
- Il primo è il commitment, e cioè la voglia reale e concreta di consolidare un nuovo mercato
- Il secondo elemento è l’apertura mentale, quella del manager o di chi per lui si interfaccia alle nuove culture di paese.
Dopo gli anni ’90 ci sono stati diversi giovani proattivi che hanno potuto portare a compimento come me i primi progetti Erasmus. Se non ci fosse stato un vero e forte impegno, non avremmo visto sviluppare tante realtà che sono sorte più avanti. Ad esempio nel 2003 mettevo in pista la prima azienda all’estero.
Quali possono essere le alternative per aprirsi ai mercati internazionali?
Un’alternativa è quella di trovare il classico manager straniero che invece ha fatto l’esperienza opposta alla nostra. Guardiamo ad esempio dei turchi o degli africani che sono venuti a studiare in Italia qualche decennio fa e che oggi, tornati nei loro paesi, sono pronti anche culturalmente ad interfacciarsi con nostri imprenditori.
Io lo chiamo il “collegamento ombelicale”: non valutare solamente la capacità economica per entrare in un nuovo mercato, ma anche l’interscambio di informazioni che deve avvenire tra la persona presente nel mercato estero e l’azienda madre italiana. Solo un passaggio forte, veloce e dinamico delle informazioni permette all’imprenditore di assorbire rapidamente le differenze culturali e magari modificare, migliorare e adattare il proprio prodotto per avere successo nel nuovo mercato. È come se si portasse la cultura aziendale della casa madre in un altro paese e viceversa.
Se invece si sceglie di mandare un manager italiano in un nuovo mercato, quali sono gli investimenti che un’impresa deve considerare in questa operazione?
Non si può pensare di esaurire il tutto con il trasferimento di un manager italiano nel Paese estero. L’azienda deve essere consapevole che una buona fetta degli investimenti per aprirsi nei nuovi mercati sarà anche quella di accogliere in Italia le persone che lavoreranno per lei. Perché se si vuole veramente riuscire in un progetto di internazionalizzazione o progetto di sviluppo rete commerciale è imprescindibile che queste persone vengano nel nostro paese e vengano VOCATE alla nostra cultura.
Sarà sicuramente un investimento notevole, se addirittura per certe realtà si parla di trasferimento temporaneo di decine di persone . Ma sarà necessario perché impareranno la nostra cultura, la nostra lingua, oltre al nostro know o più semplicemente ad operare bene sui nostri macchinari. Inoltre, ci sarà uno scambio culturale che in breve tempo produrrà frutti che consentiranno alla stessa azienda italiana di essere più competitiva nel suo stesso territorio.
Ma chi si “limita” a mandare i propri manager all’estero, ha meno probabilità di riuscita?
Certamente no, e certo non è sbagliato. Ma non bisogna mai dimenticare il “Cross Training”, cioè la capacità di favorire l’integrazione tra la sede italiana con il mercato locale. Quindi è sempre raccomandabile, per chi vuole avviare una produzione in un paese estero, affidarsi a persone competenti locali che saranno selezionate dai manager italiani e che diventeranno il riferimento del futuro per l’azienda. Anche in questo caso si dovrà costruire il “cordone ombelicale aziendale” perché solo così facendo si potranno individuare e scoprire molte cose utili per il proprio business, e che magari non si erano programmate al momento dell’avvio.
Ecco perché ritengo che la fase di progettualità sia importante, ma anche la capacità dinamica di adattarsi e comprendere le evoluzioni del mercato stesso. Una progettualità che sia in grado di muoversi rapidamente ai cambiamenti. Questo aspetto è sicuramente riscontrabile nelle piccole e medie imprese italiane che sono per loro natura più snelle. Ma deve essere ben considerato anche dalle grandi organizzazioni. In pratica entrambe devono essere molto aperte nel prendere ogni più riferimento possibile della cultura locale, della conoscenza degli usi e delle consuetudini per meglio realizzare prodotti e business.
Come si può fare per facilitare il lavoro di un manager italiano nei processi di internazionalizzazione?
Innanzitutto il manager italiano deve avere un profilo forte (trasversale nelle competenze), essere predisposto ad un’esperienza di questo genere, in quanto possiede competenze ad agire in situazioni di complessità ed ambiguità. Fondamentali sono le capacità di fare networking a tutti i livelli in un nuovo paese. In passato sono stato particolarmente fortunato perché il cliente con il quale collaboravo in Inghilterra (Hotpoint) mi ha fatto affiancare per ben sei mesi da uno dei loro. L’ho considerato un po’ il mio “angelo custode” perché mi ha seguito in tutti i miei passi sia personali che professionali. Ma oggi capisco come questa esperienza sia stata così significativa perché non avrei potuto comprendere così velocemente gli aspetti locali e culturali e quindi realizzare bene il mio lavoro. Ma ho potuto farlo anche perché l’azienda stessa credeva fortemente in questo progetto e ha facilitato tutti i processi di integrazione e comprensione culturale.
Quando ho ripetuto una nuova esperienza, questa volta in Turchia, ho avuto la fortuna di collaborare con la moglie di uno dei dirigenti dell’azienda che si occupava di Real Estate. Ho potuto contare su una vera e propria “guida” perché ha favorito la conoscenza della cultura, l’interesse per gli usi locali, la comprensione del comportarsi in certi momenti e di tanti elementi per poter realizzare meglio il business. Perché non si può pensare di fare business in modo similare al proprio paese. E’ come andare in un altro paese e limitarsi a parlare italiano…
Hai prima parlato di networking, che cosa intendi e quali sono state le tue esperienze a riguardo per migliorare il business all’estero?
Ad esempio in Turchia ho trovato molto utile e interessante la relazione con la camera di commercio ad Istanbul, ma anche l’ambasciata e le varie istituzioni presenti nel Paese. Sono sempre stato una persona dinamica e curiosa e quindi andavo a chiedere quali erano le opportunità di relazioni in loco, quali erano gli eventi a cui partecipare o le attività che potevano suggerirmi per conoscere meglio il paese, il business e la cultura.
Ho scoperto, quindi, che in Turchia ogni mese si tengono degli incontri organizzati da una “international business community”. Ogni evento viene organizzato a turno da uno dei partner iscritti e viene realizzato in location diverse e spesso molto belle. Alcuni potrebbero considerarle delle semplici cene ludiche, io invece le ho trovate un posto fantastico per fare del sano networking. Un luogo dove si scambiano le idee, si comprendono i problemi, si trovano delle soluzioni e si incontrano tante persone per realizzare nuove opportunità. D’altronde non dimentichiamoci mai che questi imprenditori italo turchi sono da anni in questo paese e sicuramente possono insegnare ad altri come meglio fare.
Questi imprenditori esteri non sono “gelosi” del loro know how o delle loro relazioni? Che cosa li muove nell’offrire in modo così generoso informazioni e contatti?
Siamo solo noi italiani ad essere culturalmente chiusi su questi aspetti. Soprattutto nelle piccole e medie imprese italiane ci sono spesso imprenditori che sono molto individualisti, che hanno paura di tutto e di tutti. Quando andiamo all’estero, invece, ci accorgiamo come le relazioni siano più aperte e pronte ad accogliere opportunità nuove e diverse. Certo, sotto questo principio noi italiani non possiamo certo essere presi come esempio e tanto meno come riferimento. Gli stessi imprenditori italiani internazionali invece sono più disposti al dialogo, al confronto ed interessati ad incontrare altre persone anche provenienti da altri paesi.
Quali sono i motivi, secondo te, di questa chiusura?
L’Italiano medio, quando si trasferisce in un nuovo mercato diventa rapidamente “Nazionalista”. Si scatena in lui quel senso di fierezza dell’essere italiano che a volte è persino esagerato. La motivazione va invece ricercata nella verità e nella scoperta del balzo culturale. Scopriamo che certi mercati, considerati a volte più retrogradi rispetto a noi, sono invece molto più efficienti e dinamici. Guardiamo il caso della Turchia: sono veloci, crescono velocemente e hanno percentuali di sviluppo superiori all’Italia.
Ecco perché suggerisco tanto networking, perché solo così ci si confronta realmente con gli altri e soprattutto si capisce come gestire il proprio business, e magari raccogliere anche qualche dritta per fare meglio il proprio lavoro.
Hai spesso parlato comunicazione interculturale. Quali sono i difetti degli italiani e cosa possiamo fare per migliorare il nostro business all’estero?
Innanzitutto comprendere che bisogna “remare tutti insieme”. Cioè collaborare maggiormente con l’estero e comprendere come l’insieme delle diverse culture può portare solo vantaggi. Evitare di essere frenati da pregiudizi o tanto meno da aspetti legati alla religione o condizionamenti culturali come nel caso dei paesi islamici.
Noi italiani abbiamo sempre la tendenza a guardare e a prendere come riferimento l’occidente, dimenticandoci di girarci ogni tanto indietro e scoprire come ci siano paesi più vicini a noi e con principi anche morali poco distanti ai nostri.
L’ingresso di un potenziale manager- investitore deve essere visto non solo dal punto di vista business, ma anche dalla comprensione della cultura. Altrimenti sì, si farà business, ma sarà più complesso, con costi più alti, tempi più lunghi….
Infine, non dimenticherò mai di dirlo, nell’approccio nell’altro mercato è fondamentale la trasparenza. Se si è trasparenti e seri, si ha più successo. Una persona ermetica e con una comunicazione poco chiara, difficilmente riuscirà a farsi comprendere. Le distanze culturali sono già tante….e se si portano anche i propri timori sarà ancora più difficile.
Poiché di errori ne facciano sempre, nella vita e nel business, è doveroso che vengano subito chiariti e si dimostri sempre la buona fede, soprattutto quando ci si relaziona con degli stranieri. Dimostrare la buona fede è fondamentale, sempre.